Cyclo Avigliana | the manghen is back 2015 racconto di Mauro Dusnasco
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the manghen is back 2015 racconto di Mauro Dusnasco

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the manghen is back 2015 racconto di Mauro Dusnasco

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Do not settle horizon. Search infinity, in questa frase di Jim Morrison è racchiusa l’essenza di quello che facciamo e di quello che siamo nello sport che pratichiamo e che amiamo, non accontentarti dell’orizzonte, cerca l’infinito, oltre la vetta di quella montagna, al termine di quella discesa, aldilà della prossima curva. Questo è il racconto di un giorno speciale, il giorno nel quale ho scelto di vedere dove erano i miei limiti e sfidarli sulle pendenze da capogiro del Passo Manghen e del Passo Croce d’Aune. C’è un pizzico di incoscienza nell’atto di iscriversi a una Granfondo come la Sportful, le altimetrie sono importanti, il percorso è lungo, non sai il tempo che troverai in quella particolare giornata, sai che dovrai soffrire ma non sai quanto grande sarà questa sofferenza.

 

Sono le sette del mattino, uno spessa coltre di nuvole avvolge Feltre mentre le griglie si aprono e circa cinquemila ciclisti sentono il suono emesso dalla macchinetta che controlla i chip di gara. A differenza delle altre Granfondo cui ho partecipato l’inizio non è così frenetico, non si toccano i cinquanta all’ora in pianura, non si assiste a sorpassi azzardati per guadagnare un paio di posizioni, si respira un’aria di rispetto verso le montagne che si profilano all’orizzonte, si conservano le forze perché la prima salita comincia dopo appena una ventina di minuti, diciotto chilometri non impossibili per arrivare a Cima Campo, salita lungo la quale l’unico rischio è tamponare un altro ciclista o essere tamponati a propria volta, considerato che la strada si restringe e il gruppone dei cinquemila è ancora molto compatto. Scelgo di salire agile per riscaldare bene i muscoli, ci sono un paio di tratti nei quali la pendenza tocca la doppia cifra ma quelli che hanno optato per il percorso lungo, siamo circa in duemila sul lotto totale dei partecipanti, hanno la testa da un’altra parte, perché dopo aver scollinato, e planato verso Borgo Valsugana percorrendo una discesa molto bella e veloce, si profila la salita che dovrebbe mettere a dura prova le gambe dei granfondisti, il temuto Passo Manghen e l’ululato del lupo che ne è il simbolo, ventidue chilometri di ascesa, i primi sedici, a parte un paio di tratti che toccano il quindici per cento, con pendenze che oscillano dal cinque all’otto per cento, gli ultimi sei, quando il bosco lascia intravedere la cima e vedi i tornanti sul fianco della montagna, che non scendono mai sotto il dieci per cento. Affianco un uomo con i capelli lunghi grigi, il suo sguardo è perso nel punto il cui le nuvole bianche toccano la cima delle montagne, non c’è più la folla compatta che saliva verso il primo passo, qui si sale in solitaria, qui si vedono le facce dei tuoi compagni di giornata, l’uomo mi guarda, gli chiedo se ha già fatto questa salita e lui mi risponde che ha perso il conto di quante volte ha affrontato questi tornanti e che ha imparato una cosa, il Manghen morde, e non lascia la presa. Capisco il senso di quelle parole quando il cartello segnala tre chilometri allo scollinamento, fino a quel momento ho continuato con il mio passo regolare, ho allargato le traiettorie nei tornanti, mi sono alzato sui pedali per rilanciare l’andatura, ho tenuto sotto controllo il battito ma il lupo morde, e sì, non lascia la presa, guardo verso il basso e vedo la fila di ciclisti che sale con il capo chino sul manubrio, il computer segnala dieci, undici, dodici per cento, i denti del lupo sono conficcati a fondo nei polpacci e la catena non si stacca dal 28, capisco perché questa salita sia così temuta e abbia nel corso del tempo assunto un’aura così mistica. Mi tolgo i guanti lunghi che ho indossato in mattinata in previsione di un freddo che non trovo, rinsaldo la presa sul manubrio e aumento leggermente l’andatura, l’asfalto leggermente crepato scorre sotto le ruote, sento le gambe che rispondono e sento il suono di voci che sostituisce il soffio del vento, alzo lo sguardo e vedo il ristoro dopo l’ultimo tornante. Non ho fame ma mi costringo a mangiare due fette di crostata e sorrido pensando ai dodici croissant con la marmellata che ho mangiato a un ristoro della Nove Colli davanti al volto attonito di una volontaria, riempio le borracce, indosso la mantellina e i guanti, prima di infilare quello destro mando un bacio al lupo che mi sono fatto amico e mi getto a capofitto in discesa. I primi chilometri sono molto tecnici con una serie di tornanti in rapida successione poi la strada si allarga e si può fare velocità, manca ancora tanto al traguardo ma l’ostacolo più difficile sulla carta è superato.
L’ostacolo più difficile sulla carta ma non nella mia personalissima granfondo in effetti.  Il Passo Rolle è preceduto da una decina di chilometri di falsopiano a salire, trovo un gruppetto e mi accodo per non prendere aria, mangio e bevo, guardo i battiti che scendono e penso che sta andando tutto bene poi comincia la scalata al Rolle e sulle prime rampe al sette per cento vado in crisi, non ho nemmeno fame solo che le gambe non ne vogliono sapere di girare, mi tolgo gli occhiali perché mi danno fastidio e butto giù una bustina di gel versandone metà del contenuto sul manubrio che resterà appiccicoso fino a casa, salgo al ritmo che mi permette il mio corpo in quel momento e vengo superato da un numero impressionante di compagni di gara, tengo il capo chino e lo sguardo fisso a un paio di metri davanti alla ruota anteriore, penso a qualsiasi cosa tranne che ai chilometri che mancano all’arrivo. Dopo cinque chilometri fortunatamente la strada spiana e riesco a ricominciare a spingere, nel frattempo ho vuotato entrambe le borracce. A Paneveggio, prima che si riprenda a salire, c’è un ristoro, mangio, bevo, faccio scorta d’acqua e di sali e riparto e, come non ci fosse mai stata, la crisi è passata, le gambe girano e gli otto chilometri che mi separano dalla cima del Passo Rolle mi sembra quasi non sentirli nemmeno. La discesa è la più bella in assoluto, l’asfalto è perfetto, ci sono lunghi rettilinei, si può recuperare senza problemi nei quaranta chilometri che mi separano dall’imbocco della salita verso il Passo Croce d’Aune, e, per una volta, faccio il vuoto, raggiungo ciclisti solitari e in gruppo e li passo tenendomi basso sul telaio della bici, qualcuno cerca di agganciarsi alla mia ruota ma taglio le curve con una facilità che sinceramente non conoscevo, l’organizzazione è perfetta, gli incroci sono segnalati, le curve pericolose evidenziate, rallento solo quando vedo una bici distrutta e un ciclista in barella, la strada dopo il Rolle è aperta ed è appena avvenuto un frontale bici contro moto, supero l’ambulanza e riprendo a scendere veloce. Una serie di gallerie in successione porta alla rotonda che immette sulla strada verso l’ultimo passo di giornata, il Croce d’Aune. L’ascesa comincia in modo spigoloso poi al terzo chilometro la strada scende leggermente per un paio di migliaia di metri, dopodiché si ricomincia a salire con pendenze irregolari fino all’abitato di Salzen, si fatica a prendere il ritmo, le ore in sella cominciano a farsi sentire, e in prossimità di una chiesetta comincia l’ultima sfida, sono i tre chilometri finali, dove la pendenza oscilla costantemente tra il dieci e il dodici per cento, con punte che sfiorano il sedici. Caro 28 quanto ti adoro, stringo la presa sul manubrio colloso e sento che le gambe girano abbastanza bene, c’è gente ai bordi della strada, c’è un’anziana signora che mi passa un pezzo di formaggio e mi dice che è quasi finita, c’è lo striscione rosso che annuncia l’ultimo chilometro di salita, c’è il proprietario di un ristorante sulla sinistra che urla nel microfono, vai che è l’ultimo poi è tutta discesa fino a Feltre! E c’è che mentre passo sotto lo striscione rosso le casse suonano Where the streets have no name e ci sono ragazzi che applaudono. Scollino senza problemi e mi butto in discesa per gli ultimi dodici chilometri, vedo i cartelli che annunciano quanto manca all’arrivo scorrere in rapida successione e quando entro a Feltre mi dimentico che c’è un’ultima rampa da affrontare, circa quattrocento metri sull’acciottolato, me ne accorgo all’ultimo istante e in piena curva cerco di buttare giù la catena sul 34 facendola cadere, manca così poco, scendo e la rimetto a posto, risalgo in sella e mentre aggancio il pedale sinistro sento la bici che parte in avanti e un paio di voci che mi urlano agganciaaaa! Mi volto e ci sono due spettatori che mi stanno spingendo, sorrido, mi alzo sui pedali e scatto per gli ultimi metri, verso quella bella ragazza, che appena passato il controllo sdam, mi porge il sacchetto di Finisher 2015 con dentro una bottiglia di birra Pedavena. Sul sacchetto c’è il lupo del Manghen, sorrido e con le mani sporche di grasso chiedo una birra alla spina nel bar pieno di ciclisti che c’è sulla destra.

Di Mauro Dusnasco

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